Disabilità e diversità: quale il loro legame con il lavoro?

Disabilità e diversità: quale il loro legame con il lavoro?

Disabilità e diversità: quale il loro legame con il lavoro?

 

Mi sono sempre chiesto quanto fosse, nella Diversity & Inclusion, realmente presente la disabilità. Mi spiego. Anzi, lo spiego con una domanda che mi ha posto una manager di una multinazionale che riporto testuale: “Perché, se la società in cui lavoro è davvero inclusiva, dovrei aver bisogno di sapere che un collega ha una religione diversa o appartiene alla categoria LGBT+?” E, allo stesso modo, perché questo non può accadere per la disabilità? A cosa ci serve conoscere la disabilità di un collega?”. Parole illuminate, che mi hanno confortato, che dimostrano (per l’ennesima volta) che le Aziende virtuose esistono, eccome.

 

Disabilità e accomodamento ragionevole nel lavoro

 

In realtà abbiamo una ragione molto precisa per dover gestire la risorsa con disabilità, e riguarda proprio la sua menomazione (quale che questa sia). Inserire il lavoratore disabile in un contesto senza adeguati accorgimenti – nel gergo corretto: Accomodamento Ragionevole nel lavoro – significa impedirgli di operare in condizioni di parità rispetto agli altri (l’accomodamento ragionevole non è un vantaggio: elimina lo svantaggio, e molti ancora non lo hanno pienamente compreso). In aggiunta, un collega senza adeguati ausili, senza l’ok del medico competente, può essere messo addirittura in una situazione potenzialmente pericolosa per la sua incolumità. Per tale ragione, nel mondo Diversity, la disabilità richiede delle attenzioni specifiche, che non possono essere replicate sulle altre condizioni.

 

Barriere culturali e fisiche: ostacoli oltre la disabilità

 

Se io sono di una diversa etnia, o LGBT+, sono una persona come le altre. Punto. E qui la manager che ha posto la sua domanda in modo appassionato ha perfettamente ragione. Dagli USA, Paese con una composizione demografica che impatta fortemente sulla vita di tutti, si è fatta sentire dagli anni Ottanta una forte voce che denunciava i rischi di discriminazione. E a questo, quando parliamo di D&I, ci riferiamo. Se non avessimo discriminazioni, bias, profezie che si auto avverano, e via dicendo, a nessuno importerebbe alcunché (e non sarebbe una forma di menefreghismo) la condizione del collega di stanza. Si tratta esclusivamente di barriere culturali e fisiche, ancora troppo alte.

Le stesse barriere affliggono il mondo dei lavoratori con disabilità, ma, come dicevo, c’è altro: c’è quel momento che richiede di essere lavorato affinché la disabilità – intesa come svantaggio – sia quanto più possibile annullata intervenendo sulle barriere che si presentano dinanzi ad una determinata menomazione. Il rumore di fondo dell’ufficio, che può sembrare piacevole, a persone sorde o con neuro diversità può risultare cagionevole. Compreso questo punto, capiamo che la disabilità rappresenta la parte più vistosa della diversità in senso lato. A volte sorprende assistere ad un lungo elenco di “categorie” di diversity e poi, in fondo alla classifica, ecco la disabilità.

Non è certo una gara a chi è “più diversity” nella Diversity, intendiamoci! Faremmo la fine dei polli di Renzo Tramaglino. Ciò che veramente conta è assimilare il modello bio psico sociale della disabilità che ci pone in un punto di osservazione meno legato alla focalizzazione della menomazione e ci ispira ragionamenti più ampi sulle barriere che ci circondano. Di ogni tipo: da barriere fisiche a barriere sociali e culturali.

 

Pari opportunità per disabilità e diversità

 

E, sempre ispirati da disabilità e diversità, ci rendiamo sempre più conto che possiamo imparare molto da quella che ci appare una condizione minoritaria (minoritaria, poi, fino ad un certo punto: circa il 15% della popolazione mondiale presenta una qualche forma di disabilità) ma che merita pari opportunità. Oggi lo smart working è considerato (non del tutto a ragione, ma non voglio andare fuori tema) il simbolo di una visione flessibile del lavoro, che in questi “tempi moderni” va applicato pena finire dietro alla lavagna. La Legge 104 del 1992 è proprio il seme dello smart working oggi tanto predicato. Si era già capito che una certa flessibilità poteva garantire a chi ha una condizione specifica il mantenimento di un buon equilibrio tra l’avere una disabilità e poter affrontare le sfide della vita.

La persona con disabilità porta con sé una condizione forte, innegabile, congenita o acquisita, con cui ci si deve necessariamente confrontare. Rappresenta quindi, sicuramente in un modo forte e a volte difficile da capire, l’aspetto più eclatante della “non normalità”, o per meglio dire della diversità umana. A partire da questa condizione così manifesta (e quando invisibile non ha meno impatto, anzi…) noi possiamo sempre più capire e comprendere che una persona LGBT+, o di un’altra religione, o di un’altra condizione ancora che non sto qui ad elencare, è una persona alla pari di tutte le altre e con pari opportunità. Tutti siamo uguali, non ci possono essere obiezioni in merito. Lo spiego ancora meglio: tutti abbiamo diritto di poter giocare la partita della vita. Se abbiamo una disabilità, dobbiamo solo essere messi in condizione di giocarla (con l’Accomodamento ragionevole). Poi si può anche pareggiare o perdere, ma meglio scendere in campo e perdere che non scendere affatto.

 

 

Daniele Regolo